mercoledì 2 gennaio 2013

 
  
Abbiamo due cieli: quello del giorno e quello della notte. Il primo, se ci siamo appena svegliati, lo
troviamo costruito, precedentemente costruito; e di colore blu, se la giornata è buona, oppure grigio, se la giornata è tinta. Possono esserci, sotto il cielo (perché noi, solitamente, guardiamo il cielo dal
basso), le nuvole… tantissime nuvole, di varie forme e sentimenti: serene, bianche e grassocce, o nere e arrabbiate, che piangono pioggia e ti suggeriscono di prendere l’ombrello. Al mattino, guardiamo il cielo, prima di guardare ogni cosa, e se esso è sereno, saremo sereni anche noi; altrimenti… tristezza. Poi, c’è il secondo cielo, il cielo della notte; che si trova nello stesso posto del primo, sempre sopra di
noi, e lo vediamo mutare pian piano, magari durante una tazza di tè, o mentre ce ne stiamo seduti, semplicemente osservando il tempo che ci invecchia e il sole che fugge. Ma, questo cielo, non ha colore, ovvero ha il colore di un sonno senza sogni: è nero, scuru, ca fa accupari. Se non fosse, sì, se non fosse che da qualche parte c’è un disco bianco, che cambia forma ogni sera, come se avesse emozioni instabili, e alle sue spalle tanti puntini brillanti. Con questo cielo ci addormentiamo, inghiottiti lentamente.
Abbiamo due cieli, dunque: quello del giorno e quello della notte. E ci siamo noi, senza offesa “piccoli”, che i cieli stiamo a contemplare.
Un passo indietro. In greco, non dimentichiamolo, cielo fa: Uranòs. Secondo la tradizione, esso nacque da Gea e si unì a lei, generando tanti figli. Ma è con il mare che il cielo diede vita alla figlia più bella: Afrodite. Se non pensiamo sia così, è necessario osservare l’orizzonte, in cui cielo e mare si baciano, si specchiano. E capiremo Afrodite, le sue guance rosa.
Guance rosa di sentimento, che esistono nell’immaginazione, ha il cielo di Filippo Galletto, il quale con semplici pennellate costruisce (unisce) i cieli di cui stiamo trattando. Tonalità cromatiche assurde, la cui eleganza e turbolenza si armonizzano perfettamente, e che imitano le sfumature di gioia e rabbia di chi ha scoperto l’infinito in un seme, e ha il sangue che bolle; cieli rosa adagiati su paesaggi che i nostri occhi spesso nascondono, ritenendoli inutili.
Tutto nasce dallo stupore, che Galletto prova in sé contemplando: perché sa di essere piccolo di fronte il cielo, perché si deve essere piccoli di fronte il cielo, perché soltanto l’umiltà i gargi fa arrussicari, o come afferma il pittore…
Filippo: Lu vidi ddu carduni spicatu?
Dario: Lo vedo.
Filippo: E lu senti ddu carduni spicatu?
Dario: Lo sento.
Filippo: E chi senti?
Dario: Ca è nenti. Ma è beddu.
Filippo: Accussì è.
Con lo stupore si riscoprono le cose belle. Accussì è. Sì, è questo: se la pittura diventa, sapientemente, traduzione di stupori e lamenti. E tra il vento che soffia sulle foglie di un ulivo contorto, di un girasole secco, di case rupestri abbandonate, di campi pieni di crepe, il pittore riflette. Dentro un paesino, Raffadali, dove prevalgono le imposte chiuse, che nascondono i dolori martellati dal cielo del giorno e dal cielo della notte, il pittore, Filippo Galletto, che ha il pennello sui suoi baffoni ispidi, fa rime sulla tavolozza con un viola e un lillà, imprimendoli su tela e carta. E alimenta, forse senza nemmeno volerlo, ma perché lo sente, la bellezza:
evaporano le banalità, e diventano miele e sorrisi di ragazzette anche i carduna e i sassi che nessuno vorrebbe.

                                                                                                                                           Dario Orphée

0 commenti: